ARTICOLO | Archivio

Stabilimento di produzione, passi avanti in Europa

8 Aprile 2015
Stabilimento di produzione, passi avanti in Europa

Commissione europea chiarisce: stabilimento produzione va sempre dichiarato se marchio induce a pensare provenienza diversa.

Nella risposta ad una più ampia interrogazione di Elisabetta Gardini lo scorso 2 febbraio,  scoperto uno snodo da oltre 30 anni critico, che prevede che l’origine di un alimento vada indicata come regola generale “solo quando la sua assenza possa indurre in errore il consumatore”.

“Intende la Commissione di chiarire cosa si intenda che debbano sussistere indicazioni obbligatorie dei paesi d’origine per i prodotti alimentari in tutti i casi in cui l’omissione di detta indicazione possa indurre in errore i consumatori, anche per ragioni sopra descritte?”

Questa domanda, posta dall’eurodeputata Elisabetta Gardini lo scorso 2 febbraio, nell’ambito del tema dell’indicazione obbligatoria o meno dello stabilimento di produzione in etichetta, riapre un caso in realtà mai chiuso. Ovvero, cosa significhi, di fatto, l’obbligo- spesso rimasto solo sulla carta, data la  generalità della previsione- di indicare l’origine di provenienza di un alimento, ma solo nel caso in cui “l’omissione detta indicazione possa indurre in errore i consumatori”.

Nel tempo, si era arrivati ad una sorta di consenso almeno su qualche prodotto (pochi per la verità): la mozzarella, se tedesca, deve essere indicata come tedesca a tutti gli effetti- in quanto il nome farebbe supporre qualcosa di diverso.

Insomma, al netto delle normative verticali di prodotto che già disciplinano l’origine (miele, olio, carne bovina, suina e ovicaprina, nonché di pollame e vino a livello UE; passata, latte in Italia), si trattava di capire la norma di fondo: molto ambigua, se non ha cessato di stimolare il dibattito negli anni.

In effetti, la domanda da porsi è quella riproposta dal Parlamento UE: quando a tutti gli effetti, la mancanza di indicazione dell’origine o provenienza può indurre in errore i consumatori?

La risposta della Commissione.

Lo scorso 27 febbraio la Commissione, rispondendo ad altri aspetti circa l’obbligo di indicare o meno lo stabilimento di produzione, ha chiarito per bocca di Mr Andriukaitis:

“L’articolo 39 comma 1 del regolamento (UE)  1169/2011 fornisce un elenco esaustivo delle possibili giustificazioni per gli Stati membri al fine di adottare misure richiedono ulteriori indicazioni obbligatorie per tipi o categorie specifici di alimenti. Il paragrafo 2 dello stesso articolo precisa che gli Stati membri possono introdurre misure concernenti l’indicazione obbligatoria del paese d’origine o del luogo di provenienza degli alimenti solo ove vi sia un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o di provenienza e, quando è prevista la prova che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni. La Commissione desidera tuttavia chiarire che essa non considera informazioni sull’origine o la provenienza né come strumento per la prevenzione delle frodi, né come strumento per la tutela della salute pubblica. Ci sono altri meccanismi in atto per garantire la sicurezza e la tracciabilità degli alimenti.

E fin qui nulla di nuovo: per introdurre un obbligo nazionale di indicare l’origine su alimenti per i quali non è espressamente prevista, servono allora due condizioni concomitanti, la desiderabilità da parte dei consumatori di tali informazioni, e un nesso qualitativo comprovato tra origine e qualità obiettive- per quanto circoscrivibili.

Ma la novità arriva nel giro di poco:

“L’articolo 26, paragrafo 2 (a), del regolamento (UE) n 1169/2011 chiede già l’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza, quando la sua omissione possa indurre in errore il consumatore sulla vera origine del cibo, in particolare se le informazioni accompagnano l’alimento o l’etichetta, come ad esempio il marchio citato dall’onorevole parlamentare, altrimenti implicherebbe una diversa origine.

E qui si apre il dibattito: di quale marchio si tratta? O quali marchi? E perché tanta circospezione da parte della Commissione? Vediamo di fare chiarezza.

L’interrogazione specificava (inglese testuale e corsivo nostro): E qui s

<<It is becoming increasingly difficult for European consumers to identify the geographical and production origins of goods due to the growing trend of selling items under the distributors’ brand. In addition, multinational groups are able to relocate their production sites to an entirely different country without needing to inform consumers, who may then be misled when trademarks implying incorrect geographical origins continue to be used.>>

Se ne evince con un sufficiente grado di chiarezza che tutti I marchi- sia private label (“Distributor’s brand”) che industriali, ad assonanza nazionale- ovvero, “Italian sounding”- siano a tutti gli effetti poi obbligati- per non incorrere in un inganno ai consumatori- a precisare l’origine del cibo.

Che però, a ben vedere, significa solo “luogo di ultima trasformazione sostanziale”, quindi più che non l’origine della materia prima agricola, il luogo dello stabilimento produttivo.

Insomma: l’obbligo dello stabilimento produttivo in etichetta sembra esserci già,  in Europa, limitatamente a prodotti che in ragione del marchio, farebbero supporre un luogo di diversa ultima trasformazione sostanziale.

I GRANDI MARCHI ITALIANI E ITALIAN SOUNDING –COSÌ COME QUELLI DI ALTRI PAESI O LINGUE A FORTE SUGGESTIONE -DOVRANNO QUINDI CONTINUARE A INDICARE LO STABILIMENTO PRODUTTIVO. COSÌ PASTIFICI, AZIENDE DI PRODUZIONE DELL’OLIO, E ALTRI PRODOTTI CON MARCHI “TIPICAMENTE ITALIANI”.

Un chiarimento importante, anche se certamente non sufficiente in termini di corretta e complessiva informazione ai consumatori.

Salute pubblica

La Gardini aveva anche dichiarato:

“In Italia c’è un dibattito in corso circa l’opportunità di mantenere circa il cibo, l’indicazione dell’indirizzo del stabilimento produttivo come obbligo in etichetta. (…). Alla luce di quanto sopra e a seguito alle dichiarazioni rilasciate il 17 gennaio 2015, dal ministro italiano per le Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Maurizio Martina, la Commissione può confermare se gli Stati membri siano in grado di adottare misure che rendono queste informazioni obbligatoria, giustificata motivi di tutela della salute pubblica, ma anche per la prevenzione delle frodi – come indicato all’articolo 39 del regolamento di cui sopra?”

La risposta della Commissione su questo punto è chiara: lo stabilimento di produzione non è uno strumento nè per contrastare frodi, né per attuare una politica di salute pubblica.

Domanda

Risposta