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Salute globale: il cibo al centro

21 Febbraio 2014
Salute globale: il cibo al centro

Ancora oggi 842 milioni di persone soffrono di denutrizione cronica; un bimbo su 6 nei paesi in via di sviluppo è sottopeso; 1 miliardo e mezzo di persone affrontano minacce alla propria integrità fisica e psicologica; soprattutto la differenza di mortalità sta aumentando nei bambini delle fasce più povere rispetto a quelle più abbienti, rispetto solo a 10 anni fa. Sono elementi di riflessione da cui partire, ed il Lancet lo fa con un vero e proprio manifesto con 3 articoli pubbicati on line l’11 febbraio: e proteggere la salute diventa “la sfida globale del capitalismo”, come titola uno dei pezzi.

                         

La nota rivista, in collaborazione con l’Università di Oslo- Commissione sulla Governance Globale per la salute, muove così un affondo sulle “origini politiche della disuguaglianza sanitaria”. E suggerisce delle soluzioni.

Se è infatti vero che la qualità della vita e l’aspettativa di vita è generalmente aumentata su scala globale negli ultimi decenni, la disuguaglianza complessiva tra popoli rimane ancora troppo elevata. E in certi gruppi sociali addirittura accresciuta.

 

Salute globale

Gli autori riconoscono che ormai i maggiori driver delle malattie dipendono da fattori che travalicano il controllo degli Stati nazione e dei rispettivi governi, e spesso superano anche il ristretto dominio settoriale della “salute”. Sempre il Lancet, esattamente un anno fa, aveva puntato l’indice contro le “global unhealthy commodities”, vale a dire alcol, tabacco, junk food, che beneficiano pochi gruppi multinazionali ma creano danni diffusi.

Con la globalizzazione, l’iniquità sanitaria deriva in via crescente da attività transazionali che implicano attori con diversi interessi e livelli di potere: stati, multinazionali, attori della società civile a altri ancora. Le decisioni e scelte di questi attori diventano presto norme sociali globali. Sebbene tali azioni non siano tese a creare danni di salute, possono tuttavia avere effetti collaterali negativi che creano disuguaglianza nella salute. “

Che fare allora? Serve innanzitutto rafforzare una regia globale sulla salute, permettendo una più ampia partecipazione possibile del più vasto spettro di soggetti, in modo da evitare che i soliti poteri decidano o –come più spesso accade-evitino di decidere.

                               

“Multistakeholder Platform on Governance for Health”

La proposta del Lancet è allora di creare un foro di incontro tra questi soggetti pubblici e private in modo da garantire uno scambio di prospettive e informazioni. Inoltre, andrebbe garantito un monitoraggio obiettivo ed indipendente delle azioni a supporto della salute pubblica. Infine rafforzare il ruolo di istituzioni sovranazionali dotate di potere morale ma anche giuridico.

 

Cibo elemento chiave per la salute

Nel paper The political origins of health inequity: prospects for change, un capitol interessante è dedicato alla “Food and Health equity”: se il mondo produce il 120% del proprio fabbisogno alimentare, questo è davvero distribuito male. Non solo l’ingiustizia è insopportabile, ma le conseguenze sul piano della salute gravano sia sui denutriti (900 milioni di persone) che sui sovra-alimentati (1,3 miliardi di persone). Istituzioni democratiche e fattori strettamente politici, più che produttivi o agronomici, sono quindi alla radice del ruolo critico che il cibo ha per la salute. Nel 2008 a causa delle fluttuazioni globali dei prezzi alimentari, oltre 40 milioni di persone nel mondo si sono ribellate, e la volatilità dei prezzi alimentari ha portato da 130 a 150 milioni le persone che vivono in povertà estrema.

Al contempo gli accordi agricoli in sede WTO non sempre hanno portato a favorire davvero i paesi in via di sviluppo: i sussidi alle esportazioni in USA ed Europa infatti- stando all’analisi del Lancet- avrebbero fatto una concorrenza alle produzioni indigene dei paesi più poveri, impedendo lo sviluppo di una agricoltura di sussistenza su scala regionale. La realtà però è che i sussidi alle esportazioni sono di fatto stati aboliti nella UE.

 

Ed il modello di agricoltura europea è assai diverso da quello USA: improntato alla qualità, dovrebbe essere tale da non entrare in concorrenza con quello dei paesi in via di sviluppo, e semmai cercando di tutelare e promuovere al meglio le specificità produttive di un settore sui generis e non certo commoditizzato. Certamente Coldiretti ha lottato in questi anni per avere un settore più aperto (si pensi alla battaglia per identificare chiaramente la figura di “agricoltore attivo”, contro il latifondismo e la rendita fondiaria che hanno beneficiato di sovvenzioni pubbliche; o a quella per avere un tetto ai pagamenti aziendali) e anche diversificato a partire dai propri vantaggi competitivi (qualità, specificità, conoscenze territoriali e saper fare). Insomma non certo un modello che si pone a confronto diretto con quello dei paesi del Sud del mondo.

                               

Ma la questione è reale. Anche per questo sembra necessario fare un cambio di passo, e da una agricoltura intesa come “settore primario”, arrivare a qualcosa di nuovo. Gli agricoltori italiani in ogni caso non si sottraggono all’obiettivo di aumentare la produzione su scala globale, ma intendono farlo adottando modelli di agricoltura diffusa e “democratica”, con vantaggi per tanti e non per pochi.

 

Infine:non si può semplicemente considerare il cibo come una commodity globale, da lasciare semmai ai paesi che hanno un vantaggio relativo nel produrli al posto di più evoluti beni tecnologici e servizi. E’un errore di prospettiva che andrebbe evitato sia da chi produce – l’Europa- sia da chi osserva- attribuendo a tutti gli agricoltori europei una lotta al ribasso e frontale verso i paesi terzi.