La mancanza di regole chiare nei mercati alimentari sembra essere un elemento chiave nel mettere a disposizione delle famiglie cibo spazzatura. Aumentando così – a livello della popolazione- il rischio di essere in sovrappeso ed obesità. Questi sono i risultati di uno studio pubblicato dalla OMS, che correla la presenza di fast food ed in genere di offerta alimentare scadente, al peggioramento della dieta e quindi a un peso corporeo eccessivo.
Lo studio, pubblicato sul Bulletin of the World Health Organization, parte da una premessa: le diete di intere popolazioni nazionali sono drasticamente cambiate negli ultimi anni in risposta alla distribuzione di nuove categorie alimentari, come gli “alimenti ultra-trasformati” (ultra-processed foods), includendo in questa categoria i “fast food”: intesi come “alimenti che possono essere preparati velocemente e facilmente, e venduti in ristoranti e bar come pasti veloci da asporto”.
Allo stesso modo, l’insorgere di grandi gruppi multinazionali del cibo ha portato ad “ottimizzare” i costi produttivi, aumentando l’offerta di cibi ricchi di calorie, ma spesso deprecabili dal punto di vista qualitativo e nutrizionale. La liberalizzazione dei mercati agroalimentari, con il consolidamento di tali realtà produttive attente ad una “industrializzazione dei costi”, ha portato così- sostengono gli autori- ad una diffusione di cibo spazzatura e di quelle che il Lancet ha definito “commodity insalubri globali” (global unhealthy commodities). Anche se in definitiva non sembra chiarissimo il perché un aumento della liberalizzazione dei mercati alimentari conduca inequivocabilmente a maggiore obesità e sovrappeso, la spiegazione suggerita dagli autori è che tale liberalizzazione favorisca “filiera alimentari globali” a danno dei piccoli agricoltori e sistemi produttivi locali. Coloro responsabili di fornire cibo sano, fresco alla popolazione.
La ricerca
Osservando 25 paesi della OCSE, gli autori hanno evidenziato come l’aumento del consumo di “cibi veloci” e “pasti pronti” sia significativamente correlato con un aumento della obesità e sovrappeso a livello della popolazione. Non solo: la diffusione sul territorio di fast food è fortemente associata ad un maggior ricorso ad essi. L’offerta alimentare di prossimità condiziona quindi fortemente i consumi finali.
Nell’analisi, si è valutata la libertà dalla regolamentazione in campo economico, tramite appositi indicatori, su una scala da 1 a 100, correlandola con la percentuale di persone obese e sovrappeso entro la popolazione. Allo stesso tempo, si è cercato di tenere in considerazione possibili variabili (ricchezza pro capite, presenza di nuclei urbani, diffusione di mezzi motorizzati di spostamento, consumo di frutta e verdura, attività fisica svolta…) che potrebbero rappresentare il reale fattore di “aumento dell’obesità” osservata.
I risultati mostrano che nei paesi “ricchi” dell’OCSE (quindi, non nelle economie in via di sviluppo, dove il fenomeno è possibilmente ancora più marcato), tra il 1999 ed il 2008 il ricorso annuale ai fast food pro capite è passato da circa 27 consumi a 33, con un aumento dell’Indice di Massa Corporea (da 25,8 a 26,4 kg/m2 : 25 è proprio il valore soglia che denota “sovrappeso”).
Gli aumenti maggiori nei consumi presso fast food si sono avuti in Canada (16,6), Australia (14,7), Irlanda (12,3) e Nuova Zelanda (10,1). L’Italia? Ha avuto aumenti più bassi (1,5), con la Grecia (1,9), l’Olanda (1,8) e il Belgio (2,1). E’ sicuramente questa una nota positiva.
Occorre allora- sembrano essere le conclusioni fare qualcosa di davvero incisivo per meglio regolare l’offerta di cibo, garantendo la disponibilità di alimenti sani. Limitando la presenza di “food desert”, per facilitare la presenza di alimenti freschi e locali, minimamente trasformati. Filiere corte, farmers markets, e sistemi di offerta locale. Così come sembra positivo- emerge dagli autori – il ruolo che la Politica Agricola Comune (PAC) ha avuto in Europa nel limitare una corsa al ribasso e alla “commoditizzazione” dell’alimentazione: il modello europeo improntato ad una politica agricola di qualità alla fine-sembra il monito degli autori- ha pagato, restituendo un minore aumento dell’obesità.
L’Italia
La situazione italiana rappresenta un caso interessante. L’Italia agroalimentare è ancora improntata ad una “proprietà diffusa”, in cui le Piccole e Medie imprese produttive rappresentano ancora oltre il 99% del totale, con una frammentazione dell’offerta che diventa competizione e diversificazione produttiva, e non solo una lotta di costo. Non a caso, gli Indicatori di diversità della dieta rappresentano una buona proxy alla salubrità della dieta stessa.
Tuttavia la grande distribuzione organizzata è andata incontro negli ultimi anni ad una forte de-regolamentazione, con tendenze oligopolistiche e con una centrale distributiva (piattaforma di acquisti), Centrale Italiana, attualmente al centro di una investigazione da parte dell’Antitrust per presunta posizione dominante di mercato. E connessi effetti anti-competitivi sulla concorrenza orizzontale (altre insegne distributive) e verticale (fornitori, tra cui agricoltori). Con possibile abbassamento della qualità (anche nutrizionale) offerta dopo che si è eliminata la concorrenza.
La realtà in Italia è che pratiche “selvagge “ o sleali di contrattazione lungo la filiera (come il sottocosto) stanno diventando un fenomeno reale, che danneggia produttori e consumatori, offrendo beni alimentari che non servono, a prezzi apparentemente bassi: ma che finiscono o per ingrassare chi li compra senza averne bisogno, o per finire sprecati .
Nello stesso tempo, tale lotta della distribuzione ai fornitori finisce per consolidare i pochi grandi produttori globali della fornitura, competitivi sui costi (a partire da pochi ingredienti “scadenti”: come zucchero e olio di palma): fornitori che probabilmente sono anche quelli che meno riescono a promuovere alimenti sani. Per contro, molte piccole imprese-anche concorrenziali- finiscono per essere spazzate fuori dal mercato. Tali effetti, rilevati nella relazione dell’Antitrust di agosto 2013, acquistano nuova luce dopo lo studio della OMS, e sembrano suggerirci le profonde connessioni tra salute pubblica e offerta alimentare.
Come si vede, gli effetti si vedono mangiando.
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