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La filiera del Prosciutto di Parma, le sfide organizzative

6 Settembre 2012
La filiera del Prosciutto di Parma, le sfide organizzative

Dall’Università di Parma, entro il neonato dipartimento di Scienze degli Alimenti, una nuova ricerca, pubblicata su Food Policy,  getta luce sui meccanismi di governance entro una delle filiere più interessanti in materia di produzioni tipiche: quella della DOP Prosciutto di Parma.

Davide Menozzi, uno degli autori, ha deciso di rispondere ad alcune domande:  permettendoci di  capire meglio come si “comporta” una filiera; come cambia nel tempo sulla base degli interessi e delle  diverse strategie di sviluppo  del marchio.  

1.         Consorzio di tutela e produzioni tipiche. Da tempo in Itaila si inseguono un po’ di voci sulla provenienza, anche commercialmente legittima, di cosce di prosciutto estere. C’è un problema di strategia tra grandi e piccoli, tra soggetti verticalmente integrati e non, tra chi scommette sui costi e invece chi scommette sulla qualità ?

Effettivamente il distretto del Prosciutto di Parma è abbastanza eterogeneo in fatto di dimensioni aziendali, numero di occupati, fatturato, specializzazione produttiva. Basti pensare che gli stabilimenti più grandi, pari al 10% del totale, fanno un terzo della produzione complessiva di Prosciutto di Parma, che nel 2011 è stata pari a circa 9 milioni di prosciutti. A fianco di questa produzione “marchiata” con la corona a cinque punte abbiamo stimato che ogni anno, all’interno del distretto, si producono 15 milioni di prosciutti non marchiati venduti come crudo generico. In parte questi provengono dal circuito della DOP (ogni anno, circa il 10% della produzione viene scartato in quanto non conforme ad esempio per la presenza di piccoli difetti), ma per la maggior parte sono prosciutti ottenuti da cosce estere, importate prevalentemente da Germania e Olanda, tanto che molto spesso gli operatori si riferiscono a tale prodotto in termini di prosciutto “estero”.

Una parte minoritaria, come dicevo, è costituita da cosce provenienti dal circuito della DOP; in questo caso si parla di prosciutti “nazionali”. Si tratta per lo più di prosciutti scartati in fase di lavorazione (circa 100 mila unità ogni anno) o di cosce certificate in macello non omologate dai prosciuttifici (circa 1,3 milioni di cosce nel 2010). In alcuni casi, invece, si tratta di una vera e propria strategia commerciale dei prosciuttifici che, per ragioni di natura finanziaria molto sentite in questi ultimi anni, preferiscono smobilizzare una parte del magazzino prima del periodo minimo di stagionatura di 12 mesi prescritto dal disciplinare della DOP vendendo, quindi, un prodotto privo del marchio consortile.  In ogni caso, la produzione del prosciutto estero è molto più concentrata rispetto a quella del Parma DOP; in effetti, le aziende di maggiori dimensioni, pari a un quinto del totale, producono i tre quarti del totale non marchiato, quindi circa 12 milioni di pezzi. Significa che le aziende maggiormente specializzate nella produzione del “non marchiato” sono molto più grandi delle aziende specializzate nella DOP, andando a cogliere importanti benefici in termini di economie di scala.

 

2.         E’ il primo studio di questo tipo. Che approccio avete seguito per impostare l’analisi?

Essendo una primo tentativo di stimare l’entità di queste produzioni e le caratteristiche e le strategie utilizzate dalle aziende del distretto, non avevamo una teoria precostituita. Abbiamo quindi in primo luogo analizzato i dati ufficiali, principalmente forniti dal Consorzio del Prosciutto di Parma (a questo proposito ringrazio Claudio Leporati e Tina Radicchio per l’aiuto), dalle AUSL e pubblicati sul sito dell’Istituto Parma Qualità (IPQ, l’ente di certificazione del Parma DOP).

Successivamente, per comprendere le dinamiche tra le aziende del distretto in relazione alle strategie adottate, abbiamo effettuato una decina di interviste ad altrettanti produttori a cui è seguita una indagine a tappeto mediante la somministrazione di un questionario a tutte le aziende consorziate. Delle 160 aziende aderenti al Consorzio del Parma, ben 94 ci hanno risposto, grazie anche alla sollecitazione da parte del Consorzio ai propri associati; questo ci ha consentito di avere a disposizione un campione estremamente rappresentativo dell’universo considerato.

L’analisi statistica, poi, è stata effettuata dalla nostra Sezione in collaborazione con un bravo e giovane ricercatore italiano, Domenico Dentoni, di origine emiliana che ora però lavora all’Università di Wageningen nei Paesi Bassi.

 

3.         Alcune aziende hanno il proprio business principale che non coincide con la produzione di Prosciutto di Parma: quali sono le implicazioni?

Dalla indagine che abbiamo effettuato è emerso che all’interno del distretto questi due sistemi produttivi, Prosciutto di Parma DOP e prosciutto “non marchiato”, sono strettamente legati tra di loro per diversi motivi. Il primo, ovvio, è che le aziende impegnate nella produzione e stagionatura del “non marchiato”, molto spesso, sono anche impegnate nella lavorazione del Parma DOP. Questo principalmente per sfruttare a pieno la capacità produttiva e per diversificare l’offerta, offrendo anche un prodotto di fascia di prezzo medio-basso.

Un secondo aspetto risiede nel fatto che i canali di distribuzione dei due prodotti sono molto spesso gli stessi; pertanto, il prosciutto “nazionale” o “estero”, difficilmente distinguibile al punto vendita (pensiamo al ristorante, o al bar), beneficia indirettamente della reputazione del Prosciutto di Parma, sebbene non sia sottoposto alle procedure di controllo, certificazione e monitoraggio previste per la lavorazione DOP. Inoltre, le aziende specializzate nella produzione del “non marchiato” traggono vantaggio dalle sinergie presenti all’interno del distretto di produzione, dall’ambiente informativo e dalle conoscenze tecniche maturato nel corso di decenni, nonché dai servizi paralleli offerti alle aziende localizzate nella zona tipica.

4.         Spesso si discute di carne proveniente dall’estero. Come l’avete analizzata nel vostro studio? Cosa emerge? Con quali altri fattori è correlata (ie, distanza, volumi, addetti…)

Come ho detto in precedenza, abbiamo raccolto i dati ufficiali (fonte Consorzio e IPQ) sui prosciutti marchiati da ogni azienda di lavorazione localizzata nel distretto, e i dati AUSL sulla quantità complessiva di carni suine lavorate dai prosciuttifici. Incrociando questi dati siamo riusciti ad ottenere una stima verosimile della produzione non marchiata, che sfugge per ovvie ragioni ai controlli dell’IPQ e del Consorzio.

Dall’analisi dei questionari ai prosciuttifici, invece, abbiamo rilevato che la produzione non marchiata si concentra prevalentemente in aziende che sono parte di gruppi societari più ampi, geograficamente più distanti dal comune di Langhirano, inteso come il cuore del distretto e che, ovviamente, si caratterizzano per una maggiore importazione di carni estere.

5.         Complessivamente, qual è il posizionamento competitivo dei membri del Consorzio, e come si pongono rispetto alle scelte future?

Nel distretto possiamo distinguere due diversi tipi di aziende.

Da una parte una tipologia di aziende tradizionali di piccole o medie dimensioni situate nei dintorni di Langhirano specializzate nella produzione del Prosciutto di Parma; per queste il prosciutto non marchiato rappresenta una parte residuale, se presente, rispetto alla lavorazione DOP. Queste aziende ritengono rilevante la qualità della materia prima, così come l’instaurare rapporti di fiducia con i propri fornitori e clienti. Per esse la rete commerciale di vendita riveste una notevole importanza e il loro principale mercato di sbocco è il dettaglio tradizionale. Alcune di queste imprese sono particolarmente ambiziose e sentono la necessità di differenziare il proprio prodotto attraverso la marca individuale; alcune ambirebbero ad avere un marchio “Alta Qualità” (che ad esempio distingua i prosciutti a stagionatura più prolungata) all’interno della DOP.

Dall’altra parte, invece, abbiamo imprese di grandi dimensioni, alcune delle quali di proprietà di altre società o parte di gruppi societari. Queste aziende attuano una strategia che non pone il Parma DOP al centro del proprio business: il prodotto è affiancato da altre lavorazioni, come prosciutti esteri, coppe, salami, e così via. Sono generalmente situate lontano dal cuore del distretto di Langhirano; realizzano elevati livelli di produzione di prosciutti non marchiati e puntano a creare relazioni di fiducia con i loro clienti, in particolare con la distribuzione moderna. Infine, se potessero scegliere una strategia da seguire per il futuro, questi prosciuttifici preferirebbero avere uno schema IGP da affiancare o addirittura per sostituire l’attuale DOP, al fine di ridurre i vincoli in tema di approvvigionamento della materia prima.

6.         Un tema classico è la competizione tra marchio del Consorzio (la corona  a 5 stelle) ed il marchio privato dell’impresa. Che succede nel Consorzio?

E’ abbastanza evidente che il marchio forte e più riconosciuto dal consumatore sia ancora quello consortile; tuttavia, come ho detto in precedenza, abbiamo tante imprese che ambirebbero a differenziare il proprio prodotto sul mercato. La strategia della marca individuale tuttavia, comporta un notevole impegno finanziario da parte delle aziende. Per questo motivo, un buon numero di imprese vedrebbe di buon occhio avere un segnale per l’alta qualità all’interno del contesto della DOP; tuttavia, questa soluzione non è nuova al Consorzio che, da almeno un decennio, discute sulla possibilità di introdurre schemi per differenziare il prodotto.