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Dieta Mediterranea salva l’Italia ma il Lancet lancia l’allarme

26 Febbraio 2015
Dieta Mediterranea salva l’Italia ma il Lancet lancia l’allarme

Certo alcuni modelli alimenti migliorano, e il consumo di frutta e verdura è aumentato nel corso degli ultimi due decenni, su scala globale: ma nel complesso, non c’è da ridere: questo – stando alle dichiarazioni dei ricercatori- il risultato principale della più ampia analisi finora mai condotta sui modelli alimentari seguiti dalla popolazione mondiale.
Lo studio infatti, pubblicato sul The Lancet Global Health, è il primo del suo genere su scala così ampia.

Finanziato dalla Bill&Melinda Gates Foundation, lo studio pubblicato sulla più seria rivista scientifica al mondo, copre il periodo 1990-2010. Lo studio è stato condotto dall’Università di Cambridge in un team internazionale, su 17 alimenti confrontabili che hanno una relazione con obesità e malattie non trasmissibili.

“Entro il 2020 le malattie collegate all’alimentazione assommeranno un 75% della mortalità totale. Migliorare le diete è un passaggio fondamentale”, ha commentato il principale ricercatore, Dr Imamura.

La ricerca ha valutato da un lato un punteggio per il consumo di alimenti “sani” (frutta e verdura, cereali integrali, noci, pesce….) dall’altro, un punteggio per alimenti meno sani (carni trasformate, grassi saturi, grassi trans, dolci, bibite zuccherate…) e poi un punteggio per la somma di entrambi. Infine è stato assegnato un range da 0 a 100.

Paesi ricchi, diete non sempre “ricche”

Se le diete sono migliorate in alcuni paesi ad alto reddito, in particolare per l’aumento del consumo di cibi salubri , tuttavia una parte consistente della popolazione in alcuni dei posti con maggior benessere vede peggiorate – o non migliorate a sufficienza- le proprie abitudini alimentari: USA, Canada, Europa occidentale ma anche Australia e Nuova Zelanda infatti mostrano le diete peggiori nel mondo, in ragione di un consumo esagerato di cibo spazzatura.

Paesi meno ricchi

Il consumo di alimenti sani rimane alto in paesi con forte tradizione mediterranea come Grecia e Turchia, o in paesi a basso reddito (Chad e Mali). Paesi dell’ex blocco sovietico invece sperimentano un drastico crollo delle abitudini alimentari. 

 

Ma la dieta “povera” non è sempre sinonimo di sana: non a caso paesi dell’Africa Sub-sahariana e Cina-India non vedrebbero- stando allo studio e agli indicatori usati- alcun miglioramento del bilancio nutrizionale negli ultimi decenni.

La delicata relazione tra reddito e salute

Ad una prima analisi, dallo studio emerge che i paesi con redditi più alti hanno diete migliori, con una correlazione positiva tendenziale con alimenti sani. Tuttavia i dati sono controversi: i paesi ricchi hanno anche un maggiore introito di alimenti non sani: il che li porta mediamente ad avere addirittura una differenza media di 33 punti su 100 rispetto ai paesi a basso reddito. Tra coloro che hanno diete migliori, gli anziani e le donne.

I limiti del modello La dieta mediterranea si salva

Se tali indicazioni sono condivisibili, in ogni caso, va rilevato, ci sottolinea il Prof. Carlo La Vecchia dell’Università di Milano che con Lluis Serra Majem ha firmato un commento proprio sul Lancet– come le diete a livello mondiale siano migliorate negli ultimi 30 anni. E come i dati vadano interpretati correttamente per non produrre una fotografia distorta.

“Vi è stato un miglioramento globale delle diete, come dato generale, e anche riferito all’Europa. Lo studio  benché costruito a partire da indicatori validi, non riesce a cogliere bene questo aspetto, ma possiamo tranquillamente sottolineare come in Italia nonché Francia, vi sia un miglioramento delle diete negli ultimi 30 anni, che si riflette in numeri molto contenuti di persone obese – pari al 7-8% della popolazione in Italia- e sovrappeso- pari al 25%-30%. Insomma, la ricerca non è in grado di cogliere la specificità della dieta mediterranea, come modello culturale che “sta tenendo”.

A ben vedere poi, nelle persone obese son incluse anche persone con patologie psichiatriche mentre le persone sovrappeso –stabili –non presenterebbero conseguenze gravemente problematiche da un punto di vista della salute pubblica”.  

“Lo studio inoltre non riesce a riflettere adeguatamente l’evoluzione in atto in alcuni paesi: l’Africa sembra un’isola felice, magari solo perché la povertà “maschera” il mancato accesso a intere categorie alimentari giudicate insalubri; e la Cina peggiorata, anche se è uscita negli ultimi anni da gravi deficienze nutrizionali. Ma complessivamente le diete sono migliorate su scala globale, rispetto a 20 anni fa”.

Filiere alimentari troppo stressate e costi artificialmente bassi

In ogni caso, i ricercatori concludono che serviranno sforzi lungo tutta la filiera alimentare per migliorare le diete: azioni di policy, tese a favorire la produzione, distribuzione e consumo di alimenti sani.
Creando contesti globali realmente salubri, cosa che ancora non avviene.  I governi e gli organismi internazionali sono chiamati all’azione per invertire le multiple cause.assi

Tra le cause del peggioramento delle diete, la presenza di “unhealthy food commodities” globali, come definito in precedenza sempre dal Lancet: alimenti  “iper-trasformati”, a basso costo, vuoi perché prodotti in modo intensivo, vuoi perché con prezzi aritificialmente schiacchiati e comprimendo oltre modo la redditività delle imprese agricole, che sradicano la biodiversità produttiva.

Il livello esasperato della trasformazione industriale, che serve ad “estrarre valore” a discapito spesso della produzione primaria per essere incamerato dalle fasi a valle, ha alcuni effetti collaterali:

– commoditizza il cibo, diminuendone la varietà: e diete varie basate su alimenti diversi sono considerate generalmente più sane (non a caso si parla di Diet Diversity Indicator come proxy per la dieta sana);

– aumenta la trasformazione e raffinazione dei cibi, diminuendone il contenuto nutrizionale complessivo (meno fibre, vitamine, minerali- fitoattivi);

– intensifica eccessivamente la produzione, con peggioramento delle caratteristiche di qualità e spesso con inespressi rischi di sicurezza alimentare derivanti da monocultura.

Aspetti sui quali è bene riflettere. Cercando soluzioni, di filiera e non solo sui consumatori, spesso preda delle lusinghe del marketing o comunque con scelte non sempre realmente libere e più spesso, indotte o comunque in qualche modo condizionate.

“Dietary quality among men and women in 187 countries in 1990 and 2010: a systematic assessment” by Imamura et al, is published in The Lancet Global Health.