Il 26 novembre è iniziata a Doha (Qatar) la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Il summit, che si concluderà il 7 dicembre, si pone l’obiettivo di dare attuazione all’accordo raggiunto nel 2011 a Durban per migliorare le azioni globali per il clima.
Ma quali sono le ultime evoluzioni in ambito climatico? L’ultimo bollettino della World Meteorological Organization del 20 novembre scorso, mette in risalto come la concentrazione atmosferica di anidride carbonica, il principale gas ad effetto serra, nel 2011 abbia raggiunto il valore record di 391 ppm (parti per milione), cioè il 40% in più rispetto all’epoca preindustriale (l’anno di riferimento è il 1750). Il ritmo di crescita delle emissioni è stato pari a 2 ppm per anno in questi ultimi dieci anni, a conferma del fatto che, all’effetto serra naturale, si è aggiunto un “contributo” negativo, legato alle attività umane (+30% nel periodo tra il 1990 e il 2011).
A completare il quadro arriva la pubblicazione, da parte dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, del rapporto "Climate change, impacts and vulnerability in Europe 2012" nel quale sono mostrate le conseguenze negative e i danni che i cambiamenti climatici stanno provocando, e si prevede provocheranno anche in futuro, in Europa.
E’ questo, dunque, lo scenario in cui si apre la 18° sessione negoziale della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che vede all’ordine del giorno argomenti di estrema importanza ai fini del raggiungimento dell’obiettivo di mantenere il surriscaldamento climatico entro i 2°C rispetto all’epoca pre-industriale. Tale obiettivo comporta la stabilizzazione delle concentrazioni atmosferiche di gas serra al di sotto di 450 ppm e un’inversione dell’attuale andamento crescente delle emissioni globali, per riportarle, entro il 2050, e, comunque, prima del 2100, al di sotto della soglia dei 24 miliardi di tonnellate di anidride carbonica per anno (rispetto agli attuali 34 miliardi di tonnellate).
A Doha, quindi, va in scena una fase importante dei negoziati sul clima e cioè quella in direzione di un nuovo accordo globale, con impegni vincolanti per tutti i paesi, nel pieno rispetto dell’equità e secondo il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate” tra paesi ricchi e poveri.
Come concordato a Durban lo scorso anno, questo accordo dovrà essere sottoscritto entro il 2015 e divenire operativo entro il 2020, ma il negoziato si inserisce in una situazione che vede la necessità di colmare l’attuale gap esistente (8-13 Gt di CO2, secondo un recente rapporto dell’UNEP) tra gli impegni di riduzione assunti sino ad ora dai diversi paesi e la riduzione di emissioni effettivamente indispensabile per rientrare nella soglia massima di riscaldamento del pianeta individuata dalla comunità scientifica, in termini di irreversibilità degli effetti di contenimento (2°C, rispetto al surriscaldamento stimato sulla base degli attuali impegni, che varia tra i 3.5°C e i 6°C).
Il contesto della Conferenza di Doha appare caratterizzato essenzialmente da due nodi negoziali che fanno capo all’attuazione della cosiddetta piattaforma di Durban: si tratta di decidere sul futuro del protocollo di Kyoto e sull’opportunità di introdurre misure di contenimento aggiuntive. Altro nodo riguarda i finanziamenti destinati ai paesi in via di sviluppo.
Per quanto riguarda il periodo post Kyoto, infatti, dalla conferenza ci si aspetta l’avvio dei lavori per la ratifica del un nuovo accordo sul clima applicabile a tutti i paesi (L’UE è in favore di un accordo ambizioso e giuridicamente vincolante), mentre, rispetto alle ulteriori misure per ridurre le emissioni globali prima del 2020, ci si attende progressi in tema di ulteriori iniziative su materie come l’efficienza energetica, le energie rinnovabili, le sovvenzioni per i combustibili fossili, la deforestazione e il degrado delle foreste, gli inquinanti atmosferici di breve durata e i gas fluorurati (rispetto alle quali, ad esempio, la Commissione europea ha recentemente proposto un inasprimento della legislazione dell’UE).
Il tema che raccoglie maggiormente l’attenzione mediatica e che risulta più urgente sul breve periodo (anche perché è legato all’imminente scadenza del protocollo di Kyoto, fissata per il 31 dicembre 2012) resta, comunque, quello della definizione del tanto atteso nuovo accordo globale.
La domanda che ci si pone oggi, infatti, è la seguente: che cosa succederà dal 1 gennaio 2013 in poi? Esiste il rischio di un disimpegno totale nell’ambito degli impegni di riduzione delle emissioni?
Come già anticipato, dunque, la sfida è quella di adottare una modifica al protocollo attuale, rendendolo ratificabile a livello globale, ma ciò appare subordinato al raggiungimento di un accordo in merito a diversi aspetti irrisolti, tra cui la durata della nuova fase (l’UE intende estenderla fino al 2020), la possibilità di riportare nella seconda fase le quote di emissione in eccesso ottenute dalla prima e accordi che garantiscano l’applicazione immediata del nuovo protocollo (il cosiddetto “Kyoto 2”) già a partire dal 1 gennaio prossimo.
Il problema della gestione dei surplus di emissioni assegnate ad alcuni Paesi per il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto, in particolare, rischia di costituire uno degli ostacoli più spinosi. Si tratta, infatti, di decidere se queste quote (che ammontano complessivamente a circa 13 miliardi di tonnellate di CO2, pari a tre volte le emissioni annuali dell’Unione europea) possano essere “conservate” o meno anche per gli impegni di riduzione del secondo periodo. La loro immissione sul mercato delle emissioni, infatti, rischia di rendere del tutto virtuale il rispetto degli impegni di riduzione dei paesi acquirenti.
Una soluzione sembra essere quella proposta dai paesi in via di sviluppo, sostenuta da Cina, India, Brasile e Sudafrica, che consiste nel consentire l’uso del surplus sino al 2020 solo per gli "usi domestici" dei paesi detentori delle quote in eccesso (vietando, quindi, la possibilità della loro immissione sul mercato).
Altra decisione centrale per il buon esito di Doha riguarda i finanziamenti per il clima destinati ai paesi in via di sviluppo e cioè gli aiuti ai paesi poveri per sostenere i loro impegni di riduzione e di adattamento a cambiamenti climatici in corso nel periodo di transizione 2013-2015. Si tratta di una ipotesi di sostegno finanziario, attraverso l’istituzione del Green Climate Fund, pari ad almeno 10-15 miliardi di dollari all’annuo che, però, a tutt’oggi, non ha ancora trovato concretizzazione.
Su questo punto, nonostante la crisi economica, l’UE ha già erogato 7,14 miliardi di euro e il pagamento residuo è previsto entro la fine anno, ma recentemente i ministri delle finanze dell’Unione hanno confermato l’intenzione dell’UE di continuare a fornire finanziamenti in favore del clima anche dopo il 2012. L’UE, quindi, intende rinnovare l’impegno su tutta la linea in favore dell’obiettivo di aumentare i finanziamenti per il clima a 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020.
Ma vediamo, in questo scenario, quali sono le posizioni negoziali “di partenza” dei diversi Paesi che partecipano alla conferenza.
Il 20 novembre scorso Cina, India, Brasile e Sud Africa hanno cofirmato una dichiarazione ministeriale congiunta rispetto alla necessità che il protocollo di Kyoto debba proseguire dopo il 2012 con una seconda fase, nella quale siano contenuti impegni molto ambiziosi di riduzione delle emissioni da parte dei paesi industrializzati, accompagnati da impegni concreti di cooperazione internazionale per sostenere lo sviluppo sostenibile dei paesi più poveri.
L’Unione Europea, già in occasione dell’ultima sessione di Durban, ha manifestato la volontà di proseguire con il protocollo di Kyoto, benché non intende assumere impegni di riduzione delle emissioni più ambiziosi rispetto a quelli già presi (-20% entro il 2020, rispetto al 1990).
Per l’attuazione dei suoi impegni, infatti, l’UE ha già messo in atto (dal 2005) un sistema di "carbon market", noto come sistema ETS (commercio dei crediti di emissione) e intende portarlo avanti fino al 2020, nonostante la comparsa di problemi di gestione e di controllo di questo mercato. A testimonianza della posizione dell’UE, Connie Hedegaard, Commissaria responsabile per l’Azione per il clima, ha dichiarato: “Doha deve ripartire dai progressi raggiunti a Durban e far progredire i lavori preparatori per giungere a un accordo globale sul clima giuridicamente vincolante entro il 2015. Sarà altrettanto importante accordarsi sulle future misure di riduzione delle emissioni intese a mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2 °C. L’UE sta tenendo fede all’impegno di partecipare a una seconda fase del protocollo di Kyoto e di continuare a sostenere con importanti mezzi finanziari le iniziative dei diversi paesi contro i cambiamenti climatici. La conferenza di Doha prenderà spunto dal recente rapporto della Banca mondiale e dal rapporto dell’UNEP sul divario delle emissioni, da cui emerge chiaramente che il mondo sta perdendo tempo prezioso”.
Sul tema degli aiuti ai paesi in via di sviluppo, Sofoclis Aletraris, Ministro dell’agricoltura, delle risorse naturali e dell’ambiente di Cipro, che è attualmente alla guida della presidenza del Consiglio dell’UE, ha precisato: “L’UE riconosce pienamente l’importanza di aiutare i paesi in via di sviluppo vulnerabili a rafforzare la resilienza ai cambiamenti climatici consentendo loro di adattarvisi. Siamo pronti a discutere con i paesi partner in via di sviluppo delle idee concrete per contrastare le perdite legate ai cambiamenti climatici e i contraccolpi subiti in termini economici e di condizioni di vita”.
Australia, Nuova Zelanda e con ogni probabilità anche la Svizzera, hanno parimenti dichiarato di voler proseguire con il protocollo di Kyoto, ma questo non significa che i sostenitori del Kyoto 2 siano in maggioranza. I maggiori emettitori mondiali, come USA, Canada, Russia e Giappone, infatti, confermano le loro resistenze all’adesione al protocollo di Kyoto, pur dichiarandosi disponibili a prendere in considerazione la firma di un trattato internazionale di riduzione delle emissioni, a patto che questo avvenga successivamente ad impegni di riduzione da parte di Cina, India, Brasile e Sud Africa.
Da parte cinese, attraverso il rapporto China’s Policies and Actions for Addressing Climate Change, si evidenzia l’inizio del cammino del gigante asiatico verso l’adozione di misure nazionali per uno sviluppo a bassa intensità di carbonio. Tra il 2006 e il 2010, infatti, la Cina ha ridotto le sue emissioni di 1,46 miliardi di tonnellate ed entro il 2017 probabilmente le ridurrà ulteriormente del 17%. Tuttavia, nonostante le intenzioni espresse nella citata dichiarazione ministeriale congiunta, anche la Cina dichiara di essere disponibile ad impegnarsi nell’ambito di un trattato internazionale che presenti obblighi e scadenze, solo dopo che anche gli USA avranno fatto altrettanto.
Da quanto detto, emergono abbastanza chiaramente le difficoltà negoziali che caratterizzano il raggiungimento del tanto atteso accordo vincolante globale.
A completare il quadro informativo che fa da cornice alla Conferenza mondiale sul clima, a novembre sono stati pubblicati due importanti documenti, che aggiornano il quadro sulle emissioni mondiali di gas serra (Unep, Emission gap report 2012) e sugli impatti dei cambiamenti climatici, sia quelli già in corso che quelli previsti per i prossimi decenni (Banca Mondiale, Turn Down the Heat: Why a 4°C Warmer World Must be Avoided). Gli executive summary (tradotti in italiano) di entrambi i rapporti sono scaricabili dai seguenti links: Executive summary: Banca Mondiale – "Abbassiamo la temperatura: perché un mondo più caldo di 4°C deve essere evitato",
Executive summary: UNEP – The Emissions Gap Report 2012
Per maggiori informazioni sull’evoluzione dei lavori della Conferenza, si segnala che la Fondazione Per lo Sviluppo Sostenibile rende disponibili on-line i resoconti aggiornati dei negoziati di Doha.