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Distribuzione inglese: calano i consumi di frutta e verdure, ma i retailer cercano sostenibilità

13 Marzo 2014
Distribuzione inglese: calano i consumi di frutta e verdure, ma i retailer cercano sostenibilità

La notizia di questi giorni segnala un crollo dei consumi di frutta e verdura in Inghilterra: 131.000 tonnellate in meno rispetto all’anno precedente. Solo l’insalata cresce in volume e valore. Se gli agricoltori si salvano (i prezzi più alti hanno compensato il calo del venduto), cosa accade a livello dei consumatori?

Sembra che nel Regno Unito stia maturando una nuova consapevolezza nella riduzione dello spreco alimentare. Anche in risposta alla campagna del governo per sensibilizzare i cittadini. Ma la crisi economica si fa sentire anche oltremanica. Ed il segnale, che è speculare a quello dell’Italia, non è certo incoraggiante. Se 75 grammi alla settimana in meno (pari a 4 kg all’anno) sembrano pochi, bisogna però considerare che difficilmente sono distribuiti in modo equo su tutta la popolazione. E’ più probabile invece che riguardino solo alcune fasce sociali particolarmente a rischio.

Sprechi e sostenibilità

Nel Regno unito in ogni caso l’attenzione alla “sostenibilità” sta crescendo. Sebbene tale termine non sia sempre capito alla perfezione, come evidenziato anche dalle ultime ricerche disponibili, manca pure un riferimento normativo in tal senso. Come invece avviene negli USA, che in base alla definizione data dalla USDA (Dipartimento dell’Agricoltura), si preoccupano di individuare 3 orientamenti principali: il primo, relativo alle buone prassi agricole rispettose dell’ambiente; il secondo, riferito alla sostenibilità economica e alla capacità quindi di generare reddito per coloro che sono coinvolti nella produzione; la terza poi, riguarda obbiettivi più ampi di sviluppo sociale riferiti specificamente alle comunità rurali (produzione primaria).

Gli attori pubblici non sono gli unici a regolare la materia: Whole Foods, colosso del bio made in USAha infatti creato un sistema di valutazione che sarà applicato dal prossimo settembre. In tale schema i prodotti freschi ed i fiori vedranno un rating come “buono”, “meglio”, “massimo” (best).

Una svolta?

Diversi sono i retailer che stanno iniziando ad occuparsi di sostenibilità: oltre a Whole Foods, anche Safeway e Chipotle.

Safeway sta chiedendo in particolare –in merito alla carne di maiale- con stalle di gestazione adeguate e non più le gabbie individuali tipiche dell’allevamento intensivo. Chipotle per contro si sta dedicando a polli cresciuti senza antibiotici (che negli USA sono ancora ammessi, a differenza dell’Europa (con bando generalizzati per scopi non terapeutici).

Lo stesso McDonald’s ha annunciato paini per acquistare solo manzo sostenibile certificato. E anche Wal Mart mette la sostenbilità al centro, chiedendo a fornitori di mais, soia e grano di sviluppare piani di gestione dei fertilizzanti adeguati

Certo, sono inziative che vanno in direzioni diverse, sottolineando aspetti non sempre omogenei. E magari ponendo pressione ulteriore su fornitori già strozzati economicamente.

SCP 2

L’aspetto su cui riflettere riguarda allora la cinghia di trasmissione dai consumatori ai retailer. Con possibili effetti per i produttori. Se infatti dopo decenni di “forniture selvagge” la distribuzione- (almeno alcune catene) sta sentendo l’esigenza di cambiare passo, includendo la sostenibilità come requisito, c’è da aspettarsi che i costi  produttivi salgano. E qui si è ad un bivio: si tratterà di capire quanto i requisiti di sostenibilità diventino costi remunerati agli agricoltori, o invece imposti “da fuori”. Qualche speranza, però, è lecito averla.

Il requisito della sostenibilità infatti non è solo una certificazione tra le tante. Oltre ad includere inevitabili aspetti economici, non è sempre possibile- siccome il concetto è abbastanza ampio e impegnativo, “esternalizzare” costi o peggiorare alcuni requisiti per vantarne altri (in modo da compensare il bilancio economico). Almeno questa sembra la promessa. Riuscirà ad essere mantenuta? Difficile dictu. Molto dipenderà dall’operazionalizzazione del termine “sostenibile”. Il fatto che negli USA esista è già un buon punto di partenza.

L’Europa?

Ad oggi, i claim generici (“naturale”, “artigianale”, etc) scontano un ritardo definitorio a livello globale. In alcuni paesi UE come abbiamo sottolineato, esistono linee guida da parte degli organi preposti che ne regolano l’accesso e utilizzo: in modo da tutelare consumatori e favorire una equa concorrenza. Sarebbe utile avere standard almeno pan-europei armonizzati, come accade del resto per gli health claims in senso lato, in modo da avere garanzie certe per i consumatori e ancora, un equo livello di concorrenza tra imprese.  Certo il rischio è quello di alzare ulteriormente l’asticella dei costi per le imprese agricole, come già fatto per altri pre-requisiti contrattuali. In tal modo, secondo i critici, requisiti commerciali diventano di fatto veri e propri standard di selezione dei fornitori, magari-come in questo caso- con una motivazione moralmente giustificata.

Questo lo spauracchio che è insito in iniziative anche lodevoli come il Sustainable Consumption and Production (SCP) europeo. Ma l’Europa al momento non sembra voler veicolare tramite etichettatura tali requisiti, anche se l’interesse di alcuni attori economici è ovviamente alto.

Il punto centrale-lo ribadiamo-sembra proprio essere la “maturità” del concetto di sostenibilità- in modo da includervi inevitabili e imprescindibili aspetti di redditività economica, in primis per gli agricoltori. Il modello USA in tal senso sembra promettente, e per quanto possibile, un buon viatico.