Secondo uno studio dell’Ocse del 2010, una persona obesa comporta costi sanitari superiori del 25% rispetto a una persona di peso normale. Si stima che obesità e patologie associate incidano per il 4,6% della spesa sanitaria del Regno Unito, e addirittura del 6-10% di quella USA. In Europa tali costi sono stimati intorno al 7% della spesa sanitaria complessiva.
Una delle modalità di contrasto al sovrappeso che si stanno diffondendo nel mondo riguarda l’introduzione delle cosiddette “soda tax”, o tassa su bibite gassate zuccherate. Ad alimentare il dibattito, un articolo appena pubblicato sul prestigioso giornale telematico LaVoceInfo, che raccoglie le opinioni della migliore intellighenzia universitaria su aspetti delicati e controversi di politiche pubbliche.
Per la prima volta nella storia del giornale, viene affrontato il tema della “fat tax” (tassa sul cibo spazzatura). Da tempo se ne sentiva l’esigenza ma l’argomento è stata preso in considerazione solo dopo gli annunci del Ministero della Salute di introdurla; e dopo che in svariati paesi europei sono state adottate misure e policies in tal senso. In Danimarca, vi è una tassa sui cibi ricchi di grassi saturi, e pari a circa 2 euro al kg; mentre negli USA diversi stati applicano a livello locale tasse sulle bibite gasate nell’ordine del 3-5 % del prezzo finale. Inoltre, in Francia è stato da poco adottato dall’Assemblea Nazionale un provvedimento per tassare circa 2 centesimi di euro a lattina le bevande gassate zuccherate.
Certo, il “rischio” –come lo definiscono le autrici dell’articolo –potrebbe essere quello di “fare soltanto cassa”; tuttavia, se il denaro così raccolto fosse poi investito per coprire i costi di campagne di educazione, informazione, nonché altri interventi multisettoriali per la lotta all’obesità e in genere alla cattiva alimentazione – come ad esempio finanziare la produzione di cibo più sano e sostenere il settore agricolo (cosa che la Francia sta facendo) lo scopo non sarebbe certo riprovevole. Secondo gli autori della pubblicazione un aumento di tassazione sulle bibite gassate potrebbe disincentivarne effettivamente il consumo, in particolare tra i gruppi sociali più a rischio. Si stima in tal senso che ad un aumento del 10% del prezzo (tramite una tassa) diminuisca di circa l’8%-10% del consumo. Pare inoltre che l’effetto deterrente sui consumi incida soprattutto sui giovani e sulle famiglie meno abbienti. Ovvero, i soggetti più colpiti, con un positivo effetto di precisione della public policy (che va a intercettare proprio il target che maggiormente può beneficiare dell’intervento).
Negli USA numerosi studi- (tranne quelli finanziati dall’industria …) hanno evidenziato la relazione tra l’aumento di peso e il consumo di bibite gasate zuccherate.
Le ripercussioni sulla scena europea non mancano: stante anche la recente e clamorosa bocciatura al Parlamento Europeo della possibilità di utilizzare indicazioni in etichetta e pubblicità “Ora con il 15% di zuccheri in meno”, in quanto non previsto originariamente dal reg. 1924 /2006. L’industria alimentare è in rivolta, d’altronde si è ritenuto che una informazione veritiera e non ingannevole ai consumatori precludesse dal comunicare con tanta enfasi cambiamenti tutto sommato marginali delle ricette.
E’ di questi giorni la pubblicazione di uno studio condotto da una equipe di ricercatori USA, tra cui Ralph Sacco, presidente della prestigiosa American Hearth Association. Hannah Gardener (vedi foto sotto), autrice principale dello studio, ha scoperto una relazione importante tra consumo di bibite gassate “riformulate” cioè senza zucchero, o a contenuto ridotto di zucchero- e rischio di infarto. Coloro che consumano quotidianamente bibite senza zucchero avrebbero un rischio maggiore del 43% di sviluppare infarto o patologie cardiovascolari. Dalla ricerca (entro il cosiddetto Northern Manhatthan Study) che ha visto coinvolti 2564 soggetti, è emerso che se il rischio di coloro che bevevano quotidianamente bibite “sugar free” era significativamente più alto, lo stesso non può dirsi di coloro che facevano un uso saltuario delle stesse.

“Non è chiaro quale sia il ruolo delle singole sostanze presenti nelle bibite ; se sia colpa dei dolcificanti artificiali, dei coloranti o di altro, ma l’effetto finale è l’aumento di rischio cardiovascolare.” ha dichiarato la dr.ssa Gardener a Coldiretti.
“Tuttavia, durante lo studio abbiamo tenuto conto di diversi fattori , per escludere che variabili nascoste fossero la reale causa dell’aumento di rischio: si poteva pensare ad esempio che il consumo congiunto di bibite e snack o cibi spazzatura potesse portare questi ad avere un ruolo chiave”, continua.
Sembrerebbe inoltre che il vero problema non sia tanto la presenza relativamente bassa di zuccheri, ma il consumo :bere ingenti quantità di bibite “light” può comunque portare ad un eccessivo introito di calorie.
Varie possono poi essere le cause di questo rischio aumentato, la caffeina ad esempio, che è contenuta in grandi quantità (un prodotto light per sua stessa natura invita all’abuso, salvo poi doversi ricordare che contiene un elevato tenore di caffeina, che provoca tachicardia, aritmie e altri problemi cardiovascolari). O l’aspartame, anche esso in grado di provocare tutta una serie di effetti negativi sulla salute, se consumato
Alla luce di quanto emerso, riformulare i prodotti potrebbe non essere sufficiente. Se i risultati fossero confermati, infatti, bene lo stop del Parlamento Europeo, che da quando ha il potere di codecisione sembra avere portato un ondata di freschezza e una maggiore tutela dei cittadini consumatori.
Il vero punto, conclude la Gardener, è legato alla proporzione tra nutrienti benefici (come vitamine, antiossidanti e micronutrienti che hanno un ruolo protettivo sulla funzionalità cardiovascolare) e calorie “vuote” (zuccheri e grassi). Anche se le bevande dietetiche hanno meno zuccheri, questo non comporta nessun beneficio nutrizionale, in quanto a differenza ad esempio di un succo di frutta, non hanno vitamine e antiossidanti naturali. Certo, contengono “un po’ meno” zucchero, ma se questo funge da incentivo a berne di più, il bilancio potrebbe essere comunque negativo. Inoltre, dallo studio emerge la conferma che i soggetti che seguivano una dieta di tipo “mediterraneo” si garantivano una maggiore protezione dai rischi di malattie cardiovascolari.
Proprio come è successo con le sigarette light e la relativa pubblicità: non è vero infatti che si ha un rischio minore di sviluppare le patologie del tabagismo, facendo un utilizzo delle stesse al posto della sigaretta normale. Ma per anni le multinazionali del tabacco hanno cercato di convincere i consumatori che così fosse.
Oggi, sembra ripetersi la stessa storia …..
Riferimenti:
- Hannah Gardener, Tatjana Rundek, Matthew Markert, Clinton B. Wright, Mitchell S. V. Elkind and Ralph L. Sacco Diet Soft Drink Consumption is Associated with an Increased Risk of Vascular Events in the Northern Manhattan Study Journal Of General Internal Medicine DOI: 10.1007/s11606-011-1968-2
- Tassare il cibo spazzatura? LaVoceInfo http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002843.html