Battaglia epocale quella dello stato di Washington, sulla “Norma sul diritto delle persone a conoscere gli OGM” (The People’s Right to Know Genetically Engineered Food Act, nota come Initiative 522) che lasciava presagire-dopo la sconfitta di una iniziativa analoga in California– un rapido cambiamento di sensibilità negli USA. Il referendum, promosso a gennaio di quest’anno, aveva visto raccolte 350mila firme di cittadini e lasciava intendere buone cose. E le intenzioni di voto di qualche mese fa segnalavano 45 punti di distacco tra i fautori del sì ad una etichetta trasparente, ridotti poi a soli 4 punti a settembre. C’è da dire che recentemente le cose sembravano ad un punto di svolta negli Stati Uniti. Whole Foods, la più grande catena del biologico, aveva annunciato una etichettatura dettagliata su OGM a partire dal 2018, in tutti i propri punti vendita. Iniziativa volontaria, ma che lasciava intendere che l’aria stava cambiando.

Ma è proprio di questi giorni la notizia che al ballottaggio- a cui si era arrivati, come avevamo precedentemente spiegato– il fronte del “sì”all’etichettatura degli OGM ha perso, piegato dalle logiche (e dalla lobby ad oltranza) delle grandi industrie (tra cui General Mills, Nestle USA, PepsiCo, Monsanto, DuPont , che con oltre 22 milioni di dollari (contro i 7,9 dei fautori del “sì”) hanno convinto a votare “no” (980mila i cittadini votanti). La portavoce dell’opposizione alla I522, Dana Bieber-foto sotto-, avrebbe dichiarato: “questa è una netta vittoria per i consumatori di Washington, ma anche per i cittadini (“taxpayers”, coloro che pagano le tasse) e per le aziende agricole a conduzione familiare”.
Il messaggio sembra riassumere una campagna di comunicazione pubblica fuorviante (sebbene efficace), basata su 3 punti:
– I consumatori americani non hanno bisogno di informazione aggiuntiva sugli OGM, perché questi non sono prodotti diversi rispetto a quelli che mangiano abitualmente, bensì gli stessi prodotti “ordinari” e accettati, "sicuri" (a loro dire).
– I “taxpayers”, ovvero i cittadini, vedrebbero aumentare i costi di etichettatura e quindi del cibo (in un momento storico in cui il cibo diventa crescentemente inaccessibile: aumentano i cittadini USA beneficiari dei Food Stamps– ovvero del programma di “buoni alimentari” tipo social card- al 15% nel 2012, per 46,6 milioni di beneficiari-1 cittadino USA su 6-.
– Gli agricoltori, che producono per oltre il 70% cibo GM, possono vedersi rifiutato il prodotto in ragione di benefici dei prodotti non GM, che vengono descritti dal lobbying pro-industria come non chiari e comunque discutibili.

Insomma, la campagna di comunicazione ha colpito al cuore le fondamenta stessa del fronte dell’opposizione, ovvero l’alleanza tra consumatori (e del loro “diritto di sapere”) e agricoltori (e del loro “diritto di produrre”). Si è in buona sostanza arrivati a far pensare ai cittadini che non c’è niente in più da sapere, e che il “diritto di produrre” secondo modalità alternative potrebbe essere uno sfizio “costoso” per l’agricoltura estensiva USA ma anche per i cittadini. Strategia simile a quella tenuta in California, dove erano stati stanziati 44 milioni di $ contro appena 7 del fronte dell’etichettatura.
Da un punto di vista strategico, l’espediente di public affairs è sicuramente ingegnoso: anziché andare a cercare nuove e fantasiose argomentazioni per negare la validità della richiesta di informazione, si è smontato alle radici la desiderabilità di tale richiesta. Mostrandone apparenti costi sociali ed economici. Le leve retoriche del ragionamento alla prova dei fatti, si rivelano almeno dubbie, per non dire infondate. Molte accuse al nuovo regime di etichettatura sono già state smontate. Ci interessano però da vicino i 3 snodi principali dell’argomentazione, che riguardano i 3 pubblici -target "sensibili": consumatori, cittadini, e agricoltori.
Consumatori: “che altro c’è da sapere?”
Qui la comunicazione pubblica delle lobby ha fatto credere ai consumatori che siccome i prodotti GM sono sul mercato da almeno 20 anni, sono sicuri. Argomentazione “ad antiquitatem”, come dire: “li avete mangiati fino ad ora e non siete morti”. Sebbene tale ragionamento abbia una propria presa sul consumatore medio, la realtà è diversa. E 20 anni di uso non equivalgono ad uso sicuro. Da un punto di vista scientifico infatti, tale informazione non ha fondamento. Per verificare la reale dannosità a lungo termine degli OGM andrebbero condotti studi con un gruppo di controllo (e alimentazione rigorosamente non OGM), cosa realmente difficile, e che richiederebbe larghe coorti. Se è difficile stabilire quindi un legame certo tra consumo di OGM e loro effetti sulla salute, diventa facile negare completamente tale possibilità. Come ha spiegato Nassim Nicholas Taleb (autore del Black Swan, e altri saggi di statistica degli eventi estremi), occorrono campioni enormi e raffronti longitudinali estesi nel tempo per arrivare a dimostrare la dannosità degli OGM, in modo simile a quanto avvenuto a suo tempo per il tabacco (che ricordiamolo, ha impiegato almeno 50 -60 anni di ricerca per vedere riconosciuti pubblicamente gli effetti nefasti). La “legge dei grandi numeri” insomma è costosa e richiede tempo per emergere. Ma la retorica funziona bene: se le evidenze non sono così chiare, perché curarsene?
Fa specie rilevare come il fronte del “no” non si sia poi nemmeno preoccupato di controbattere al principale effetto avverso di “breve termine” delle colture GM: già ben documentato negli USA – ovvero, l’impatto ambientale. Dovuto allo sviluppo di infestanti resistenti al glifosato , sarebbe evidente negli ultimi 16 anni di coltivazioni di OGM, che hanno portato ad un aumento pari a 239 milioni di kg nell’uso degli erbicidi dal 1999 al 2011; e di 183 milioni di kg nell’uso di pesticidi in genere (pari al 7% circa) -“in compenso”, ci sarebbe stata una piccola riduzione nell’uso di insetticidi pari a 53 milioni di kg.

Cittadini e tax payers:
Una leva sicuramente efficace nella campagna di comunicazione adottata dal fronte del no riguarda comunque il paventare costi addossati ai cittadini americani. Già alle prese con il debt ceiling e lo “shutdown” amministrativo, 47 milioni di cittadini USA attualmente versano in uno stato di insicurezza alimentare (e di paura). Il reddito di almeno il 40% della popolazione USA è calato in termini reali del 6% da inizio della crisi (2008). E ormai nessuno più si vergogna di usare i “buoni pasto” del Governo, come accadeva una volta. Sebbene si stia ancora dibattendo se ridimensionare il programma SNAP, che ha preso formalmente il posto dei cosiddetti “Food Stamps” (o buoni pasto alimentari per gli indigenti), ad oggi un cittadino americano su 6 vi ricorre. Argomentare che una etichettatura sugli OGM aumenterà il costo del cibo è quindi andare a colpire un nodo scoperto cui in tanti sono sensibili. Ma anche in questo caso, non si vede perché il costo del cibo debba aumentare. I costi di re-packaging sono minimi, e avvengono frequentemente nell’industria alimentare che si trova a cambiare etichette per nuovi requisiti normativi. I veri costi potrebbero essere dovuti ai controlli per garantire l’assenza di GM: ma se tutti gli attori economici (in primis i produttori) sono in buona fede e garantiscano la presenza o assenza di OGM, dopo un periodo di phasing in –o messa a regime e di verifica,- il buon comportamento dei privati potrebbe realisticamente vedere una diminuzione del numero dei controlli (con sistemi di audit a campione sul 5% del prodotto). E eventuali costi di non conformità non dovrebbero essere passati sui cittadini, bensì, tramite un sistema di bonus-malus- sui produttori che frodano e si comportano scorrettamente. Tale sistema, già usato da alcuni fornitori USA (cosiddetto “affidavit”) è basato sulla trasparenza e fiducia commerciale, e su impegni giurati, seguiti da controlli minori.
Diversi studi hanno infine dimostrato che una etichettatura GM free non ha costi particolari sui consumatori (pari a circa 40 centesimi di dollaro su una spesa di 400).

Produttori: rischiare l’uovo oggi per … la gallina domani?
Infine, altro punto critico è stato quello di andare a toccare la sensibilità dei produttori agricoli USA, da tempo avvezzi a coltivare OGM. Il cartello delle aziende che hanno sostenuto il “fronte del no” ha infatti sottolineato come gli OGM aiutino gli agricoltori ad aumentare la produttività dei loro raccolti, mentre non è detto che il mercato ed i consumatori vogliano riconoscere loro prezzi più alti in caso decidano di coltivare varietà non GM. Oggi oltre il 70% del cibo USA è di provenienza GM, il che certamente implica la presenza di una agricoltura GM. Ma che gli OGM siano la soluzione per i redditi degli agricoltori USA è dubbio. In base ad uno studio globale condotto considerando diversi raccolti e leggendo gli ultimi 50 anni, le varietà GM non avrebbero garantito maggiore produttività rispetto alle controparti convenzionali. E gli USA avrebbero anzi visto una perdita di aumento della produttività rispetto all’Europa e alle varietà convenzionali. Per contro, laddove vi sono stati aumenti di produttività, questi sembrano imputabili proprio a varietà convenzionali non GM. L’espediente retorico delle lobby ha agito quindi agitando una paura infondata, paventando peggioramento delle rese in ragione di colture non GM (dove la nuova tecnologia “avversata”… è paradossalmente quella delle ibridazioni tradizionali!).
Democrazia USA: conflitti di interesse troppo evidenti
In conclusione, un cortocircuito sin troppo evidente della politica USA riguarda allora la possibilità delle lobby di agire -sebbene in modo del tutto aperto, trasparente e rendicontato-, con finanziamenti propri, ma contro l’interesse generale della popolazione. Certo il primo emendamento della Costituzione USA tutela la libertà di parola per convincere il decisore pubblico: ma sembra che a fronte di temi così importanti, in cui la stragrande maggioranza dei cittadini (90%) ha espresso una opinione favorevole all’etichettatura degli OGM, non si possa lasciare le politiche pubbliche nelle mani di pochi interessi, a discapito dei più. Già sul global warming e sull’adesione a protocolli internazionali le lobby hanno impedito agli USA di avere un ruolo guida per contrastare il cambiamento climatico. E purtroppo, i costi di scelte di questo tipo vengono scaricati non solo sui cittadini USA, ma sulla cittadinanza globale, che poco può fare per difendersi rispetto a decisioni prese altrove, e almeno formalmente e proceduralmente legittime.