Sarà che le parole chiave ormai sono state dettate e costruite da tempo: ma entro l’Eu Action Plan on childhood Obesity 2014-2020 prevale ancora una retorica alimentarista di tipo industriale. Applicata alla salute e alla nutrizione, ma sempre di stampo un po’ “produttivista”. Beninteso, nel nuovo rapporto della Commissione vi sono novità interessanti e certo improntate a certa lungimiranza. Si parla di partenariati con diversi attori, complementari; di azioni sinergiche; di attività sia dal punto di vista alimentare che dell’attività fisica, o della creazione di ambienti scolastici più favorevoli al movimento.
Ma ancora non si vedono alcuni aspetti e premure che invece si manifestano altrove (ad esempio negli USA; con l’attenzione ai Farmers’ markets o ai prodotti poco trasformati come frutta e verdura, che negli USA sono ammessi entro il programma SNAP, la prosecuzione dei Food Stamps).

O ancora, non si intravede quel che già sta emergendo in altre policy UE. Ad esempio, la nuova sensibilità del Parlamento Europeo in merito a forme alternative di distribuzione rispetto al retail tradizionale, come descritta dalla Risoluzione di Cornelis de Jong. sul Piano d’azione europeo per il commercio al dettaglio a vantaggio di tutte le parti interessate. Forme di distribuzione che sembrano promettere una maggiore accessibilità a cibi sani, ad esempio.

Quali poi i limiti principali del Rapporto, nonostante –lo ribadiamo- i diversi aspetti positivi?
– Accento sulle iniziative degli stakeholders. Nascendo in seguito ad un programma di derivazione privata, come la EU Platform for Action on diet, Physical Activity and Health, tanta parte delle azioni specifiche verrà demandata all’industria, nell’ambito della propria volontà di intervento. Già in passato, in base ad uno studio della City University di Londra, è stato dimostrato che l’intervento di soggetti con conflitti di interesse (come l’industria, che deve puntare a massimizzare i ricavi che derivano dal cibo) porta a risultati sub ottimali e non sempre quindi apprezzabili in termini di salute pubblica. Altre azioni “a guida” della Commisisione, come l’High level group on Nutrition and Physical Activity sembrano promettere una regia più solida. Ma in ogni caso, quando le azioni dipendono dai partner industriali, finiscono per essere spesso legate solo a educazione e a riformulazione dei prodotti. E veniamo a questo secondo punto.
– Il focus sulla riformulazione dei prodotti non porta a sostituire “ultra-processd foods” con cibi freschi, come frutta e verdura. Semmai porta a esasperare il gap tra chi può acquistarli a un prezzo necessariamente più caro rispetto al prodotto di base (pre-riformulazione) e chi invece continua a rifugiarsi sui junk foods. La soluzione per contro dovrebbe essere quella di rendere accessibili- anche fisicamente- a tutti cibi che costano meno, in quanto meno trasformati e con un minore arbitraggio lungo la catena del valore. Cose analoghe possono essere dette per la riformulazione delle porzioni. Che finisce per far pagare di più ai consumatori, per meno in cambio. Sperando che possa servire a diminuire il consumo. Il gioco economico è banale: si tassa in modo occulto il cibo junk (la porzione più piccola, a parità di prezzo, è questo), ma i ricavi extra…vanno ai produttori (e non all’attore pubblico per finalità magari pro-sociali).
– Manca una piena considerazione dei canali di vendita alternativi. Se è vero che si comincia a fare attenzione agli ambienti scolastici, cercando di rendere più facili le opzioni alimentari più salubri e limitando semmai la presenza di junk food, ancora poco spazio è riservato agli Alternative Food Chains (AFC), che sembrano necessari per veicolare una offerta alimentare nel complesso più sana. Anche se l’aspetto convenience (comodità, praticità d’uso e conservabilità, insieme ad un prezzo basso) è sicuramente un plus della distribuzione moderna, viene ad un costo. Così frutta e verdura sono vendute in modo da massimizzare la conservabilità e l’omogeneità di vendita, a discapito di qualità organolettiche o nutrizionali. Mentre i cibi pronti o trasformati, che presentano un costo unitario più alto ed una marginalità maggiore per i supermercati, sono prodotti a partire da materie prime che puntano ad un massimo contenimento dei costi (e spesso sono “global unhealthy commodities” come zucchero e oli tropicali). Quindi con costi poi nascosti di salute. Né si può pensare di risolvere il problema dell’accessibilità di cibo sano con campagne come la distribuzione di frutta e verdura fresche ai bambini di aree svantaggiate, come iniziativa episodica, sia pure interessante. O come con il programma “Frutta nelle scuole”, pure utile a sensibilizzare circa la necessità di coniugare cibi sani ed educazione alimentare.
– La stessa definizione dei “produttori”, omogenea e senza differenze (la Commissione si rifugia spesso in definizioni generiche come “industry”– per comprendere tanti soggetti diversi; o “producers”, con lo stesso limite), non permette di distribuire in modo chiaro le responsabilità: sia di quanto fatto finora, sia di quel che si può fare per il futuro (“I compiti”). Una più precisa declinazione dei soggetti che prendono parte a tali iniziative e dei rispettivi interessi (ancorché legittimi), permette di delinear meglio la portata dei ruoli, senza inutili commistioni che non sembrano poter condurre lontano, e che anzi possono portare i cittadini all’impressione che la burocrazia europea sia in realtà in mano a soggetti privati con diverse finalità rispetto alla tutela della salute pubblica.
(prevalenza dell’obesità-Italia)

In definitiva: non si può pensare di risolvere il problema dell’obesità e del sovrappeso infantile predisponendo una “perfetta riserva scolastica” per bambini, magari ottimizzando pasti e attività fisica lì, per poi lasciare il resto in balia degli eventi. Se è vero che la salute comincia sin da piccoli, è anche vero che la salute inizia prima e oltre la scuola. Sono aspetti di cui l’Europa dovrebbe tener conto.